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CIRILLO & METODIO, UN ALFABETO NON FA UN POPOLO

 

Venerdì 1 aprile 21.30

Donbass

 

Regia di Sergei Loznitsa. Un film con Tamara Yatsenko, Liudmila Smorodina, Olesya Zhurakovskaya, Boris Kamorzin, Sergey Russkin. Genere Drammatico – Germania, Ucraina, Francia, 2018, durata 110 minuti. Sottotitolato in italiano.

 

Questa non è la storia di una regione, un paese o un sistema politico. Si tratta di una crisi dell’umanità e della civiltà in generale. Riguarda ognuno di noi.

 

(…) Loznitsa torna sui temi di Maidan, il documentario girato a Kiev all’epoca della protesta iniziale nell’omonima piazza, con un film cosiddetto di finzione. La circospezione lessicale è d’obbligo, non solo perché la genesi di Donbass affonda in un video amatoriale, che il regista si è trovato a visionare e dal quale è partito per orchestrare il suo affresco, né soltanto perché il linguaggio è fortemente para-documentaristico, l’utilizzo di macchina a mano e soggettive è massiccio e qualsiasi intervento musicale extradiegetico è negato. Ma c’è di più, perché l’ambiguità del mezzo è il messaggio stesso. Pensato in formulazione circolare, il film prende le mosse dalla roulotte del trucco di una troupe, nella quale un gruppo di civili si prepara a comparsare per un telegiornale. Subito qualcosa non è chiaro: è davvero una messa in scena? A qual fine? E chi la dirige? Il finale del film riprenderà questo set facendo sfumare del tutto i confini tra l’evento e la sua costruzione.

 

Demiurgo di una satira che incontra ad ogni angolo la tragedia della realtà, Loznitsa non va per il sottile, accusando di follia criminale protagonisti e comparse dell’insurrezione militare filorussa e facendolo alla maniera del suo cinema, ossia lasciando che siano le immagini a costruire, per spontanea eloquenza, le scene di questo teatro dell’assurdo, e completando il quadro con dialoghi tautologici e scenografie kafkiane.

Ciò che Loznitsa constata e ricostruisce, rischiando a tratti di parlarsi addosso, è una realtà che ha perso i connotati della plausibilità, che pare scritta per il teatro o per il cinema, o uscita dalla grande letteratura russa, intrisa d’ironia. Poi però le mine esplodono, le mitragliatrici sparano e si contano cadaveri veri, da una parte e dall’altra della stessa nazione. (mymovies, recensione di Marianna Cappi)

 

Venerdì 8 aprile 21.30

Frost

 

Regia di Sharunas Bartas. Un film con Vanessa Paradis, Weronika Rosati, Andrzej Chyra, Boris Abramov, Mantas Janciauskas. Genere Drammatico – Lituania, Francia, Ucraina, Polonia, 2017, durata 90 minuti. Sottotitolato in italiano.

 

Un on the road che ha come meta il fronte ucraino e la sua guerra fratricida.

Rokas e la sua ragazza Inga viaggiano dalla Lituania all’Ucraina per portare viveri ai militari ucraini al fronte. Lungo il tragitto si fermano a un party organizzato dall’amico Andrei in Polonia e in altri luoghi sperduti degli stati ex sovietici. (…) Frost vive di questa inquietudine tendente alla dispersione, sospeso tra l’urgenza di cogliere l’attimo in cui la storia si sta scrivendo e il racconto di due vite esemplari dello smarrimento che attraversa un popolo. Al centro c’è ancora la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il girovagare senza un fine di chi ne è rimasto orfano, uccidendo il padre ma non sapendo come sostituirlo. Lituania e Ucraina sono accomunate da questo legame invisibile, che Rokas e Inga, con il loro viaggio, intendono approfondire (…). (mymovies, recensione di Emanuela Sacchi)

 

Venerdì 15 aprile 21.30

 Angely revolucii

 

Regia di Aleksey Fedorchenko. Un film con Konstantin Balakirev, Pavel Basov, Darya Ekamasova, Georghi Iobadze, Aleksey Solonchev, Oleg Yagodin. Genere Drammatico – Russia, 2014, durata 113 minuti. Sottotitolato in italiano.

 

Un capolavoro…

Mosca, 1934. Polina, bellissima e agguerrita ex combattente della Rivoluzione di Ottobre, viene convocata da un alto componente del governo sovietico che le affida un incarico delicato: convincere le popolazioni indigene del nord dell’Unione Sovietica ad aderire all’ideologia comunista. Infatti, nonostante il governo abbia “generosamente” edificato scuole e ospedali in quei territori sperduti, i popoli Khanty e Nenet che li abitano da sempre rifiutano di riconoscere l’autorità di Mosca, fedeli ai loro sciamani e alle loro divinità pagane. Per aiutarla nel difficile incarico, Polina riunisce intorno a sé una posse di ex combattenti il cui primo amore è l’arte: un compositore, un architetto, un regista teatrale, un regista cinematografico e uno scultore. Sono tutti esponenti di quell’avanguardia russa che ebbe parte importante nella Rivoluzione e infiammò gli animi dei combattenti giovani e idealisti. Chi meglio di loro per conquistare i consensi e le simpatie dei popoli del nord.

(…) Attraverso le figure dei sei “missionari” governativi, Fedorchenko racconta l’irrigidimento istituzionale del governo sovietico e il modo in cui la rivoluzione russa è gradualmente passata da espressione della volontà popolare ad imposizione su quelle stesse masse che intendeva sostenere.

La messinscena conta almeno quanto la storia narrata: una messinscena spesso teatrale, sia perché il teatro dell’avanguardia russa è stato un potente veicolo di comunicazione politica, sia perché i protagonisti sono anche “burattini della storia”, ombre cinesi stagliate sullo sfondo dei grandi rivolgimenti politici, immagini proiettate su cortine di fumo destinate a svanire. Fedorchenko inquadra anche il proprio mestiere di regista identificandone la responsabilità storica e morale, e racconta i suoi protagonisti senza giudicarne le azioni, ma illuminandone le irrimediabili conseguenze.

Come sempre, la fotografia, l’uso delle luci e la composizione delle inquadrature sono di una bellezza sublime, e questa volta Fedorchenko non si “limita” a raccontare il popolo dei Mari con accuratezza antropologica, ma punta lo stesso sguardo da entomologo anche sugli intellettuali moscoviti, che coglie nel momento in cui non hanno ancora consapevolezza del destino che li attende (per uno di loro, ad esempio, il regista ebreo, “arriverà il momento”, come dice una soldatessa con placido fatalismo). Quei militanti che credono di non aver più bisogno di una pistola e si illudono che sarà l’arte a salvare il mondo per condurlo verso le magnifiche sorti e progressive, finiranno vittime della loro ingenuità. (…) (mymovies, recensione di Paola Casella)

 

Venerdì 22 aprile 21.30

Atlantis

 

Regia di Valentyn Vasyanovych. Un film con Andriy Rymaruk, Vasyl Antoniak, Liudmyla Bileka. Genere Drammatico, – Ucraina, 2019, durata 106 minuti. Sottotitolato in italiano.

 

Un film disperato sulla disperazione, dalla crudezza iperrealista e dall’atmosfera sospesa.

 

In un futuro prossimo la guerra tra Ucraina e Russia nella regione del Donbass è finalmente terminata. L’ex soldato Sergeij è tornato dal fronte con una sindrome da stress post-traumatico e non riesce ad adattarsi alla nuova realtà. Dopo il suicidio del migliore amico, anch’egli reduce di guerra, e dopo la chiusura della fonderia in cui lavora, Sergeij aderisce al progetto di un’associazione di volontari specializzata nel recupero di cadaveri di guerra. Poco alla volta, lavorando accanto alla responsabile Katya, capisce che un futuro migliore è possibile.

 

Il resoconto secco, spietato, stilisticamente controllato, di un ipotetico ma estremamente realistico dopoguerra nell’Ucraina libera dal conflitto con la Russia.

 

Un mondo in cui la ripresa dalla vita è resa impossibile dal trauma psicologico dei sopravvissuti e dall’avvelenamento della terra. Un incubo dal quale, però, può ancora nascere una speranza.

Valentyn Vasyanovych è un regista e direttore della fotografia ucraino. Ha diretto quattro film e curato la fotografia del cult The Tribe di Myroslav Slaboshpytskkyi. È un autore dalla mano precisa, sicura, che osserva con la macchina da presa lo stato del suo Paese, da anni coinvolto in una guerra secessionista che coinvolge la parte orientale del paese, quel Donbass già al centro dell’omonimo film di Sergei Loznitsa.

Atlantis non è la cronaca del conflitto: è il resoconto di ciò che esso si sta lasciando alle spalle, e che nella finzione del film è già un fatto concluso, una condizione da cui ripartire. (…).

Nel futuro immediato immaginato da Atlantis, Sergeij vive immerso nella realtà del conflitto, sa solo sparare, non si adatta alla fabbrica, cerca luoghi dove combattere. La morte e la perdita del lavoro – in due scene visivamente stupefacenti, una con la ripresa in tempo reale di un suicidio, l’altra che sembra uscita da “1984” – segnano un punto di non ritorno. Per andare avanti, Sergeij deve tornare nel passato, scavare nella terra dal quale emergono cadaveri senza nome che infestano il suolo sul quale cammina (…). (mymovies, recensione di Roberto Manassero)

 

Venerdì 29 aprile 21.30

Enklava

 

Regia di Goran Radovanovic. Un film con Milena Jaksic, Filip Subaric, Nenad Stanojkovic, Milan Sekulic, Miodrag Krivokapic. Genere Drammatico, – Serbia, Germania, 2015, durata 92 minuti. Sottotitolato in italiano.

Opera d’anelito pacifista ambientata nel Kosovo postbellico, gravata da un simbolismo programmatico.

 

Kosovo, 2004. In seguito al conflitto, le forze della Nato presidiano il territorio per mantenere la pace. L’enclave in cui vive il piccolo Nenad è quella di serbi all’interno di un territorio a maggioranza albanese. Il ragazzino, isolato dai suoi coetanei albanesi e musulmani, appartiene infatti a una famiglia serba e cristiano ortodossa, formata dal padre Volja, che trova conforto nell’alcol, e dal nonno Milutin, il suo unico interlocutore e compagno di giochi. Ci sarebbe anche una zia, ma è rifugiata a Belgrado dopo l’occupazione dei territori. Per andare ogni giorno a scuola Nenad, unico alunno della classe, percorre a piedi una strada sterrata e raggiunto il check point sale su un blindato delle KFOR (Kosovo Force), spesso in compagnia di padre Draza, presenza religiosa della comunità.

A monitorare i suoi spostamenti quotidiani sono tre ragazzini, tra cui Bashkim (Denis Muric, protagonista di Figlio di nessuno di Vuk Rsumovic, alla Settimana della critica 2014), la cui famiglia si sta preparando a festeggiare un matrimonio. Mentre Nenad accetta passivamente la violenza del padre e la propria condizione di orfano di madre e di segregato, Bashkim ritiene i serbi responsabili della morte del padre e perciò nutre un risentimento sordo nei confronti del coetaneo, pacifico e inoffensivo. Nonostante la polizia presidi l’area, le armi circolano ancora, nascoste e a portata di mano. Purtroppo non solo degli adulti che esplodono colpi verso l’alto per festeggiare le nozze.

Opera dichiaratamente esemplare, Enclave si chiede se sia possibile la convivenza civile tra le nuove generazioni, tra ragazzini che giocano ancora tra le macerie della guerra, dando per scontato che gli adulti siano incapaci di dialogare. La forma che sceglie è la più tradizionale e simmetrica possibile, che a tratti sfrutta l’immaginario western, muovendosi tra movimenti speculari e osservazioni reciproche tra le due “fazioni” in campo, due riti ancestrali che si incrociano (funerale e matrimonio) e un andamento circolare che parte e arriva a uno stesso componimento scolastico (titolo: “il mio migliore amico”) (…). (mymovies, recensione di Raffaella Giancristofaro)

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