Venerdì 1 novembre 21.30
MANIFESTO
Un film di Julian Rosefeldt. Con Cate Blanchett, Erika Bauer, Carl Dietrich, Marie Borkowski Foedrowitz, Ea-Ja Kim. – Australia, Germania, 2015, durata 94 minuti.
Cate Blanchett supera se stessa in un film dove il confronto e la riflessione sono inevitabili e produttivi
Il Manifesto del Partito Comunista raccontato da un homeless, i motti dadaisti recitati da una vedova a un funerale, il Dogma 95 descritto da una maestra ai suoi alunni e così via. 13 personaggi diversi: ogni personaggio uno scenario, ogni scenario un movimento celebrato attraverso intensi monologhi. A dare corpo a queste parole una sola attrice: Cate Blanchett. Lo si potrebbe definire in molti modi Manifesto. Uno di questi potrebbe essere: documentario.
Definire ‘documentario’ questa opera di Julian Rosefeldt rischia di essere molto riduttivo.
Non perché il genere documentario sia una forma minore di espressione mediale (il successo che sta meritatamente riscontrando in questi anni ne costituisce una testimonianza inattaccabile). Il fatto è però che in questa occasione si va oltre le regole che definiscono il genere per offrire allo spettatore un’esperienza unica.
Non a caso, prima di arrivare sul grande schermo, è nato come installazione. L’esperienza è unica perché una sola attrice ha prestato se stessa per fare esistere esseri umani contestualizzati in ambiti totalmente differenti l’uno dall’altro. Cate Blanchett ci aveva già dato grande prova di trasformismo interpretando Bob Dylan in Io non sono qui ma in questa occasione supera se stessa considerando anche il tempo ristretto (12 giorni) delle riprese.
Ma non si tratta di puro e semplice virtuosismo attoriale (che di per sé sarebbe comunque già sufficiente per apprezzare il film) perché l’obiettivo è decisamente elevato. Rosefeldt rilegge un gran numero di ‘manifesti’ per saggiarne la consistenza e la presa (se ancora c’è) sul rapporto odierno tra società, arte e vita quotidiana. Andiamo così da Marx a Lars Von Trier passando per Marinetti, Kandinsky, Apollinaire, Fontana, Breton, Éluard e innumerevoli altri. Le loro parole, le loro ribellioni (giovanili e non) vengono fatte proprie da una punk tatuata oppure da una CEO a una festa privata ma proprio questa apparente astrazione le fa risuonare con maggiore evidenza interpellandoci.
Non è obbligatorio sapere tutto del Futurismo o del Situazionismo così come del Surrealismo o del Minimalismo. Anzi, stranamente, ci si accorgerà che meno se ne sa più quelle invettive o quelle definizioni che non lasciano spazio ad alternative acquisiranno una energia che si fa nuova proprio perché ignorata.
(Recensione di Giancarlo Zappoli)
Venerdì 8 novembre 21.30
WIENER-DOG
Un film di Todd Solondz. Con Danny DeVito, Kieran Culkin, Greta Gerwig, Zosia Mamet, Ellen Burstyn, Julie Delpy, Tracy Letts, Michael James Shaw, Samrat Chakrabarti, Kett Turton, Devin Druid, Trey Gerrald. USA 2016, durata 90 min.
Cosa unisce un bambino sopravvissuto al cancro, la ragazza più isolata delle scuole medie che ritrova il suo primo amore, un professore di sceneggiatura in crisi esistenziale e una donna alle prese con i rimpianti della vecchiaia? Wiener-Dog, un bassotto itinerante che attraverserà le vite di questi quattro personaggi, ciascuno colto in un momento di transizione o difficoltà.
Quanto è crudele il cinema di Todd Solondz? Una domanda che ci poniamo sinceramente, senza retorica. C’è crudeltà in questo cinema così acido e rivelatore, sicuramente doloroso ma carico spesso del più spiazzante sarcasmo?
Certo è che nella carriera di Solondz ogni spettatore avrà trovato la sua linea di confine, il limite oltre il quale l’irrompere della realtà sembra lasciare il posto a un beffardo accanimento d’autore. Ma forse questo passaggio è solo la reazione più immediata e fisica a un dialogo ben più complesso ed elaborato, quell’incontro di umanità e cinismo attraverso il quale il riso si spezza a favore di una vicinanza tra spettatori e personaggi che arriva improvvisa, disagevole, non voluta. Araldo di quell’infinito numero di esistenze e circostanze che il cinema (più in generale il racconto collettivo) americano ha chirurgicamente rimosso dal proprio immaginario, o in alternativa ammesso ma solo se all’interno di codici drammatici e catartici molto precisi e ormai storicizzati, Solondz costruisce i suoi film come trappole di empatia non richiesta, sentieri apparentemente definiti da umorismo nero, stilizzazione dei caratteri e forme ultrapop, ma di fatto circuiti emotivi direttamente connessi ai mostri di un reale più o meno quotidiano che di colpo ci ritroviamo vicino, intimo, umano. Pedofilia, disfunzione emotiva e psichica, disabilità, disperazione, vittimismo e autocommiserazione, quello che sembra un oceano di fango e veleno e merda diventa il contatto obbligato con una prospettiva altra, appena fuori asse rispetto alla nostra. Perché queste forme di disagio sono comunque insite nel legno storto da cui nasce la natura umana, e non possono per questo essere risolte o magicamente superate.
Che ci sia cattiveria o meno in queste considerazioni è un fatto che può e deve rimanere a discrezione dello spettatore, entità che Solondz ha sempre rispettato profondamente e mai guidato dall’alto di una morale precostituita.
(Recensione di Matteo Berardini)
Venerdì 15 novembre 21.30
HAGANENET
Un film di Nadav Lapid. Con Sarit Larry, Avi Shnaidman, Lior Raz, Gilles Ben David, Ester Rada, Guy Oren. – Israele, 2014, durata 120 minuti.
C’è un inciso nella Bufera di Montale che arriva improvviso, che sospende il ritmo e risplende bellissimo. Recita così: “marmo, manna e distruzione”. E in una nota Montale scrive: “Marmo, manna e distruzione sono le componenti di un carattere: se tu le spieghi ammazzi la poesia”.
Nell’israeliano Haganenet – The Kindergarten Teacher, secondo film dopo The Policeman di Nadav Lapid, una donna cerca di spiegarla, la poesia, e soprattutto cerca di spiegare a se stessa la potenza delle parole che escono dalla bocca di un suo alunno, un bambino di cinque anni che declama versi meravigliosi e improvvisi. Stupefatta e folgorata, la donna si chiede quello che tutti ci chiediamo di fronte all’arte: da dove viene la creazione? E nello specifico, da dove vengono le parole, dove stanno prima di arrivare, perché arrivano?
Ma non esiste ragione per l’inspiegabile. E colei che si interroga sulla sua natura, quasi come in una parabola biblica, finisce non solo per ammazzare la poesia, creando versi senza forza, ma il suo stesso mondo, la famiglia, il lavoro, la reputazione.
Il bambino poeta è infatti ignaro e impassibile, non lo si può comprendere, solo ascoltare. È un profeta della tradizione, non un veggente, ma una creatura pura, fuori dal mondo e dentro il grande corso del Tempo; è l’espressione di una realtà incontaminata dal pensiero, che non conosce il mondo ma lo nomina, che viene prima del linguaggio e si esprime secondo i canoni di una bellezza inavvicinabile.
A suo modo, il poeta bambino è come il protagonista di un magnifico racconto di Nathan Englander, il povero Charles Luger di Per alleviare insopprimibili impulsi, che in taxi veniva folgorato dalla sua natura ebraica e cominciava a parlare in jiddish: senza una vera ragione, se non quella di essere parte di un’esistenza primitiva ed eletta che per la cultura ebraica grava sull’esistenza dei vivi.
Solo che a differenza di Englander, Napid non si pone in una logica religiosa, ma declina il racconto in modo oggettivo, senza traccia di ironia o tragedia. La stessa macchina da presa si situa in una posizione indecifrabile, fissa e a distanza, non così lontana da essere indifferente, nemmeno così vicina da aprirsi all’iperrealismo. Il punto di vista è quello di una presenza misteriosa, uno sguardo invisibile che a tratti può rivelarsi – un personaggio sbatte contro l’obiettivo, un altro guarda in camera – e che la limpidezza della rappresentazione, nel dramma di una donna senza talento ridotta all’impotenza dal mistero della rivelazione, può trasformarsi in qualsiasi cosa: nel luogo indecifrabile dal quale proviene l’ispirazione di un poeta o nello stesso imponderabile punto di vista di Dio.
(Recensione di Roberto Manassero)
Venerdì 29 novembre 21.30
Ostatnia Rodzina
Un film di Jan P. Matuszynski. Con Andrzej Seweryn, Dawid Ogrodnik, Aleksandra Konieczna, Andrzej Chyra. – Polonia, 2016, durata 122 minuti.
Un dramma familiare che tra piani sequenza e humour nero riflette le ossessioni del pittore polacco Beksinski
Zdzislaw Beksinski è un pittore che consacra su tela le gotiche ossessioni della sua mente. Un artista anticonvenzionale che, tormentato da fobie, vive in conflitto con un figlio nato con il desiderio di morire e una moglie sottomessa. Di decade in decade l’universo politico e sociale che circonda il patriarca di The Last Family evolve ma Beksinski è emotivamente statico come le pareti della sua casa a Varsavia. Un’indifferenza nei confronti della vita che nemmeno il tempo e la perdita dei suoi cari riesce ad attenuare. Tra suicidi ed omicidi il nucleo familiare di Beksinski sopravvive nell’assenza di amore, vittima dell’autodistruttività di uno dei più grandi pittori polacchi della storia. Una famiglia infelice che nessuno ricorderebbe se non fosse per i ritratti in Super 8 della sua tragica quotidianità.
Utilizzando un approccio linguistico asciutto, Jan P. Matuszynski firma un ritratto familiare privo di artifici cinematografici. Un biopic che, come una Polaroid, immortala l’ultimo respiro dell’artista con la controversa ossessività di Beksinski.
(Recensione di Carlo Andriani)
Ogni anno, nel mondo, vengono prodotti circa 25.000 film. Di questi, meno di 500 vengono distribuiti in Italia. Tra le altre migliaia, abbiamo voluto sceglierne una piccola selezione. Abbiamo chiamato questi film “i dispersi”: vogliamo ritrovarli e farli conoscere il più possibile, perchè quello che non vogliamo è che un bel film, solo perchè snobbato dalla distribuzione italiana, rimanga sconosciuto.
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