Venerdì 19 ottobre 21.30
I am not a witch
Regia di Rungano Nyoni. Un film con Maggie Mulubwa, Henry B.J. Phiri, Nancy Murilo, Travers Merrill, Nellie Munamonga. Gran Bretagna, Francia, Germania, Zambia 2017, durata 93 minuti.
Sottotitolato in italiano
Una bambina accusata di stregoneria verrà esiliata in un accampamento nel bel mezzo del deserto da cui è impossibile fuggire.
I Am Not a Witch parte da quella formula. Centralità bambina, tema doloroso, esteso stavolta al sociale asociale. Ogni tinta fosca è però di nuovo virtuosisticamente trattenuta: niente sentimentalismi, nessun melodramma. Chi va in cerca di esotiche indignazioni, si astenga. Ci sono sporgenze di stile, inconsuete protuberanze d’immagine. Tante antinomie in equilibrio, a stimolare il contraddittorio critico. Il campo lungo, l’immagine vista da lontano, tipica d’Africa, è combinato con piani ravvicinatissimi, tentativi di penetrare l’anima attraverso il volto. La macchina da presa è discreta ma visibile. Il racconto, piano, apparentemente a favore del pubblico passivo, risulta invece denso di scivoli e sterzate, costeggia il cinema d’autore con ellissi. Spostando gli impulsi fuoricampo, si limita a suggerire, più che a esplicitare, le spinose questioni.
https://www.rapportoconfidenziale.org/?p=40791
(rapporto confidenziale-Leonardo Persia)
Venerdì 26 ottobre 21.30
La cinquième saison
Regia di Peter Brosens, Jessica Woodworth. Un film con Aurélia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gill Vancompernolle, Peter Van den Begin. – Belgio, Paesi Bassi, Francia, 2012, durata 93 minuti.
Sottotitolato in italiano
UN’ALLEGORIA VISIVAMENTE ORIGINALE SULLA LIBERTÀ, NELLA TERRA DI BRUEGEL
n principio fu un gallo affetto da mutismo. In fine, una mandria di struzzi che osserva la nostra “fine“ di spettatori annichiliti. L’animale ci guarda e ci interpella, con una forza capace di irretirci, rinviando al mittente l’idiozia che rinneghiamo a noi stessi e proiettiamo sugli esseri non umani, qui più umani degli umani, troppo umani perché continuino ad assecondare l’istinto di sopravvivenza dell’uomo rapace.
Così inizia e così si chiude uno dei migliori film del concorso veneziano 2012, La cinquième saison, della coppia Peter Brosens/Jessica Woodworth, terzo capitolo di una trilogia etno-paesaggistica iniziata nel 2006 col già notevole Khadak (premio migliore opera prima a Venezia) e proseguita tre anni dopo con Altiplano (presentato alla “Semaine de la critique” di Cannes).
Opera visivamente ammaliante, pittorica e mai stucchevole, La cinquième saison ingloba, narrativizzandoli, alcuni temi e figure dell’arte contemporanea più vicina a noi (chiari i referenti: Bill Viola, Anselm Kiefer, Jeff Koons, Damien Hirst, il cinese Zhenzhong) e incorpora assommando, attraverso suggestioni mai gratuite e fugaci lampi visivi e sonori, il cinema di Jacques Tati (il vociare indistinto, campestre e pedestre, della comunità in festa), di Werner Herzog (rovesciandone l’assunto: qui è la natura a lanciare la sfida all’uomo), le Scene di caccia in Bassa Baviera di Peter Fleischmann (nella seconda parte: la caccia al capro espiatorio) e Theo Angelopoulos (per la composizione del quadro e il simbolismo). Sorprendendoci costantemente e spiazzandoci per il progressivo slittamento dal comico-grottesto iniziale al lirismo funebre finale, il terzo capitolo di questa trilogia della violenza (detta/Khadak, rappresentata/Altiplano, qui esercitata e subita) è una sinfonia anti-eziologica in quattro movimenti e una stasi, tra iperrealismo e onirismo.
La tradizione e il rito si presentano dapprima come un “assurdo“ che saremmo comunque pronti ad accettare (l’apparizione dei fantocci giganti), poi divengono segni/referenti (i fantocci confluiscono nel rito per la fine dell’inverno) di una società, quella rurale della regione delle Ardenne; infine si eclissano, lasciando la natura in balia di se stessa.
La prima stagione (Inverno) testimonia degli ultimi “fuochi” (la salita della collina, l’edificazione di “Zio Inverno“, la danza) e del crepuscolo della cultura: la tradizione e l’immaginario plurisecolare si “inceppano”, il Guy Fawkes di paglia non prende fuoco, il rito è morto. La fine della cultura porterà con sé il tramonto dell’auto-rappresentazione del gruppo (i contadini non hanno, letteralmente, più parole) e della celebrazione di un tempo ciclico e di uno spazio naturale “addomesticati” e addomesticabili. Come sembra suggerirci l’episodio ritornante del gallo afasico, l’uomo è docile fino a quando ha l’impressione di poter dominare e domare, traducendolo e anestetizzandolo in rito perpetuabile, l’indomabile. A partire da questo momento, La cinquième saison diventa la straziante rappresentazione (mediante ricostituzione di simboli e figure mortifere) di un immaginario (intradiegetico) non più possibile, un racconto (aperto) in cui emerge, progressivamente e inesorabilmente, il lato oscuro e oscurato della relazione dell’uomo/poeta con la natura.
La seconda non-stagione (Primavera) segna il crepuscolo della coltura: dal letame non nasce più niente, le api non impollinano più, il paradosso sembra realizzarsi e il filosofo nomade, il solo adulto a non sentire il bisogno di spiegare l’inspiegabile (facendo del paradosso di oggi il pregiudizio di domani), sa che si può rispondere all’impossibile soltanto proponendo una via d’uscita egualmente impossibile (egli afferma, citando Rousseau: Je préfère être un homme à paradoxes qu’un homme à préjugés).
La terza non-stagione (Estate) prelude all’alba del giudizio. Gli individui diventano “folla“ anonima; la folla ha bisogno di individuare/individualizzare la colpa e forgia l’ultima figura che è capace di creare, quella del capro espiatorio (ovviamente il filosofo, l’“uomo dei paradossi” della natura).
La quarta non-stagione (Autunno) segna di conseguenza la messa in atto della condanna del filosofo straniero (ed estraneo): dall’ultima invenzione comunitaria possibile all’ultimo rito realizzabile (e ultimo movimento, ultima terribile “stella danzante” creata dal caos), un rito presociale, a-culturale, atavico. Gli abitanti del villaggio indossano una maschera ensoriana per occultare ciò che non sono più. Pura furia omicida, puro istinto. Morte. Giungiamo così alla stasi, all’immobilismo, dove permangono solo simboli cristallizzati e tre figure nel paesaggio, divenute oramai, loro stesse, simboli (Thomas, Alice, il figlio paraplegico del filosofo).
La quinta stagione attesta il blocco definitivo del ciclo, dell’eterno ritorno; è il non-tempo in cui più nulla scorre e in cui la natura, pur immobile, dopo essersi lasciata morire per uccidere il suo sfruttatore, riprende il comando. È tempo, per gli struzzi, di alzare la testa e guardarci negli occhi. E per i puri, sopravvissuti all’odio xenofobico della fu docile comunità, di divenire panicamente natura e spegnersi con essa.
Come d’autunno sugli alberi le donne.
https://filmperevolvere.it/la-cinquieme-saison-ita-subita/
Recensione: spietati.it
Venerdì 2 novembre 21.30
Còrki dancingu
Regia di Agnieszka Smoczynska. Un film con Marta Mazurek, Michalina Olszanska, Jakub Gierszal, Kinga Preis, Andrzej Konopka. – Polonia, 2016, durata 92 minuti.
. Sottotitolato in italiano
UN HORROR MUSICALE, TRA BURLESQUE E GROTTESCO
Potrebbe trattarsi di un thriller. E’ notte, la nebbia avvolge la riva cespugliosa di un fiume, e i musicisti di un bar bevono, cantano e si divertono. Ma due sirene (Michalina Olszańska e Marta Mazurek) emergono dalla Vistola e lanciano il loro canto ammaliatore: “Pescateci, non vi mangeremo”. La frase risuona innocente, ma con un accenno di provocazione. Le ragazze sono belle, le loro voci angeliche, ma le loro code sono immense, mucose e “sanno di fango”. E’ la scena d’apertura di The Lure [+], primo lungometraggio di Agnieszka Smoczynska, presentato al Festival di Sundance nella sezione competitiva World Cinema Dramatic. Una sequenza iniziale in cui il contrasto tra la finezza dei volti delle giovani donne e i loro fisici imponenti può lasciare sconcertati, o persino respingere lo spettatore. Perché molto presto si capisce che a condurre questa storia non sono le dolci sirene delle fiabe per bambini, ma delle creature la cui natura enigmatica e ambigua si svelerà in modo brutale e con un lato vampiresco: il desiderio di sangue umano.
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Si annuncia così, in maniera implicita, un’altra complessità, più formale, del film. Perché non è né un dramma, né una commedia romantica musicale, né un thriller, bensì un mix di tutti questi generi. La regista, che si è ispirata alla figura classica di La sirenetta di Andersen, reinterpreta la celebre fiaba in maniera molto personale. Per Smoczynska, le metafore di Andersen sono un punto di partenza per sovvertire le cose. La regista dà loro un nuovo look raccontando questa storia con un’estetica “camp” e un kitch voluto, inserendo i suoi personaggi in un contesto anni 80 di cattivo gusto, all’interno dei locali notturni dell’era della Polonia comunista.
Al ritmo di risate malvagie, battute oscene e una musica impregnata delle hit dell’epoca, il film denuncia l’ipocrisia delle relazioni umane, ridicolizza le fantasie maschili, smitizza l’ideale dell’amore innocente, eterosessuale ed eterno. Questa storia delle due sirene pescate nella Vistola, con la loro identità indefinita tra donna e bambina, animale ed essere umano, ha senza dubbio una dimensione universale poiché è un’immagine iniziatica, del passaggio della soglia verso la maturità.
La musica non serve da semplice illustrazione dell’azione: ne è un elemento centrale. Le canzoni sono state scritte dalle due sorelle Zuzanna e Barbara Wronska (sulle scene polacche dal 2007); le protagoniste del film, Michalina Olszańska e Marta Mazurek, si rivelano all’altezza di questi modelli, riuscendo a incarnare i personaggi e dando prova allo stesso tempo di un vero talento musicale, così come il resto del cast, Kinga Preis, Adam Gierszal e Andrzej Konopka.
La forma fortemente stilizzata (che sfiora talvolta l’ostentazione), l’enfasi dell’artificio, la teatralità e l’umorismo talvolta sarcastico del film rischiano di dividere nettamente il pubblico. Ma una cosa è certa: con il suo linguaggio personale creatore di un cinema audace e “predatorio” (come l’ha definito la celebre cineasta Agnieszka Holland), Agnieszka Smoczyńska è una regista che dà un tocco tutto nuovo alla settima arte polacca.
https://cineuropa.org/it/newsdetail/304603/
di Dorota Hartwich
Venerdì 9 novembre 21.30
O Ornitòlogo
Regia di João Pedro Rodrigues. Un film con João Pedro Rodrigues, Paul Hamy, Chan Suan, Juliane Elting, Xelo Cagiao. Portogallo, Francia, Brasile, 2016, durata 118 minuti.
Sottotitolato in italiano
UNA RILETTURA DEL MITO E DELLA VITA DI SANT’ANTONIO
Niente di sacrilego o irridente ma una rilettura onirica e visionaria tra sacro e pagano nella fantasticheria del regista portoghese Joâo Pedro Rodrigues.
Ci sono film che bisogna accogliere come un flusso ininterrotto d’immagini, che si oppongono a eccessive razionalizzazioni, la cui materia narrativa è più simile a quella destrutturata di un sogno che a un’esperienza reale. È il caso dell’intrigante O Ornitologo del regista portoghese Joâo Pedro Rodrigues che abbiamo visto al 34esimo Torino Film Festival nella sezione Onde, quella più sperimentale e destinata ai videoprodotti meno allineati.
Una bizzarra fantasticheria catto-animista su un ornitologo gay, Fernando (il fascinoso modello e attore francese Paul Hamy), che si troverà a vivere esperienze simili a quelle di Sant’Antonio da Padova – il suo vero nome era Fernando Martins de Bulhôes – per poi ‘reincarnarsi’ nel regista stesso e giungere alle porte della cittadina veneta.
All’inizio del film Fernando si trova su un kayak a Trás-os-Montes, una selvaggia zona boschiva a nord est del Portogallo. Sta osservando con un binocolo alcune rare cicogne nere. A causa di una rapida che risucchia e capovolge il kayak, resta tramortito sulla riva del fiume. Viene soccorso da due lesbiche cinesi in pellegrinaggio sulla via per Santiago di Compostela ma smarritesi nel bosco. Costoro si rivelano due vere erinni: lo legano come un novello San Sebastiano (lui resta in mutande e osserva la potente erezione che tenta di farsi strada fra i nodi) con l’intento di castrarlo.
Seguiranno eccentrici incontri, all’insegna di una mitologia imprevedibile che accosta le icone cristiane al paganesimo bucolico: dal pastorello sordomuto che si fa allattare da una capretta e si accoppierà proprio con Fernando in una liberatoria scena naturista d’amore esplicito en plein air, a una strana setta di uomini mascherati da uccelli piumati che sembra esperire esoterici riti notturni intorno a un fuoco, di cui Fernando teme essere la vittima predesignata: trova infatti vicino ai resti del falò la sua carta d’identità con due fori al posto degli occhi. Non manca un agguerrito gruppo di amazzoni cacciatrici a seno nudo e il fratello gemello del giovane pastore che nell’ultima parte del film – la meno riuscita e più confusa – dà una svolta lacaniana alla vicenda con riflessioni pseudo-mistiche sul tema del doppio e dello specchio (subentra il vero regista che si sostituisce al protagonista).
Rodrigues tenta – e in parte ci riesce – ciò che Derek Jarman aveva fatto con Sebastiane, ovvero rendere queer ed eroticamente palpabile il sacro, in una commistione molto personale di religiosità spiritista e istinto, un’immersione nella natura selvaggia dove l’innesto dell’umano ha qualcosa di pulsionale e liberatorio.
https://www.cinemagay.it/film/o-ornitologo/
Roberto Schinardi
Venerdì 16 novembre 21.30
Kumiko, the treasure Hunter
Regia di David Zellner. Un film con Rinko Kikuchi, Nobuyuki Katsube, Shirley Venard, David Zellner, Nathan Zellner. – USA, 2014, durata 105 minuti.. Sottotitolato in italiano
Il ritorno dei fratelli Zellner, con la storia tra il drammatico e il grottesco di una trentenne giapponese alla ricerca di un tesoro, e della propria vita.
Tratto da una storia vera
Una ragazza giapponese vestita di rosso, Kumiko, si aggira sulla spiaggia alla ricerca di qualcosa: in una grotta trova un tesoro nascosto, una vhs abbandonata sotto una pietra. Da questa scoperta parte un viaggio ossessivo verso il Minnesota, verso la valigetta abbandonata sotto la neve in Fargo dei fratelli Coen… [sinossi]
Tornano al lungometraggio i fratelli Zellner, e approdano nuovamente alla Berlinale dopo aver presentato nel 2012 Kid-Thing nella sezione Forum. Ed è ancora una volta Forum a ospitare Kumiko, the Treasure Hunter, folle racconto a metà tra la fiaba e il dramma ossessivo che vede per protagonista una trentenne giapponese convinta di poter rintracciare una valigetta piena di dollari seguendo le tracce lasciate da Fargo dei fratelli Coen. Il motivo? Quella scritta “tratto da una storia vera” che apre il film del 1996 e campeggia, ironicamente, anche nell’incipit di Kumiko, the Treasure Hunter. Già, una storia vera… Non è facile muoversi nell’universo dissociato dei fratelli Zellner – solo David, alla maniera dei primi Coen, firma la regia mentre entrambi si occupano della sceneggiatura –, perché l’instabilità umorale dei loro lavori, sempre in bilico tra dramma, tragedia, grottesco ed esplosione surreale, si muovono inevitabilmente su una linea destinata a saliscendi infiniti.
Il discorso vale anche per Kumiko, the Treasure Hunter, la cui storia si articola essenzialmente su tre livelli differenti: l’incapacità della protagonista a relazionarsi con il mondo che la circonda – nella sua ingenua follia arriva al punto da non saper distinguere la messa in scena di un film dalla “realtà” che lo stesso indaga –, l’incapacità che mostra il mondo esterno nello sforzo di comprenderla, e l’incontro/scontro tra la tonitruante Tokyo e gli innevati spazi deserti del Minnesota, sferzati da un vento gelido.
Paradossalmente, per quanto la prima parte del film, ambientata a Tokyo, risulti anche scritta in punta di penna, divertente e ricca di cambi di ritmo – con il coniglietto Bunzo a fare la parte del leone – è solo quando i Zellner abbandonano il Giappone per raccontare il Minnesota rurale che Kumiko, the Treasure Hunter trova una sua definitiva collocazione. La ricerca illusoria di Kumiko mostra finalmente la sua reale faccia, quella di una fuga da tutto e da tutti, che nasconde la disperata invocazione di una favola, ideale impossibile da materializzare perché cinematografico, per quanto tratto da “una storia vera”. Quando Kumiko cerca di baciare il poliziotto che l’ha soccorsa e che le sta dando una mano non fa altro che seguire in maniera pedissequa gli schemi del cinema classico, e ancor prima della fiaba: il salvatore come amante, senza alcuna sfumatura possibile.
Se nel west di John Ford nello scontro tra realtà e leggenda era quest’ultima ad avere la meglio, negli spazi desolati degli Zellner il duro scoglio del reale non può essere superato con altrettanta facilità. Come nella storia dell’uxoricida (per mano altrui) Jerry Lundegaard, in cui il grottesco si faceva strada senza mai prendere il posto della tragedia, anche in Kumiko, the Treasure Hunter l’eterna fuga nel gelo dell’inverno della terra dei diecimila laghi non può trasformarsi mai completamente in commedia. Nel rifiuto di Kumiko verso qualsiasi aiuto che non la assecondi nel suo assurdo progetto (le squallide telefonate con la madre, il già citato incontro con il poliziotto, l’anziana che la raccoglie sul ciglio della strada) si nasconde l’imperterrita volontà a non lasciarsi assoggettare da una realtà che ha però, in maniera inevitabile, già vinto in partenza. In Kumiko, the Treasure Hunter anche la risata più liberatoria (e non capita di rado), ha un retrogusto amaro. Ed è possibile, all’ultima apparizione di Bunzo, avvertire un groppo in gola. Cinema diseguale e forse incompiuto, quello dei fratelli David e Nathan Zellner, ma ricco di fascino e di umanità.
https://quinlan.it/2014/02/07/kumiko-treasure-hunter/
Raffaele Meale
Venerdì 23 novembre 21.30
Sleeping beauty
Regia di Julia Leigh. Un film con Emily Browning, Sarah Snook, Rachael Blake, Michael Dorman, Tammy McIntosh. Genere Drammatico – Australia, 2011, durata 101 minuti.Sottotitolato in italiano
A metà esatta di Sleeping Beauty [id., 2011], quando la studentessa lavoratrice Lucy (Emily Browning) giace per la prima volta addormentata nella lussuosa villa fuori città di Clara (Rachael Blake), in attesa che attempati signori possano fare di lei ciò che vogliono (eccetto penetrarla), uno dei clienti abituali della donna (indicato nei titoli di coda del film come Man 1, interpretato dall’attore teatrale Peter Carroll), prima di rimanere solo con Lucy, confida a Clara di aver riletto di recente il racconto Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann:
«Un uomo una mattina si sveglia e non riesce a scendere dal letto. Riesamina la sua vita: egli è preso da un’inquietudine. Egli sente di avere meno diritti di un uomo morto. Che cosa può fare? Egli desidera un’estrema soluzione al suo dilemma. Decide di lasciare la sua città natale, a fare un po’ di autostop. Un uomo lo prende, viaggiano nella notte… Quando “bang!”, l’auto va contro un muro, l’autista muore, il nostro uomo è ricoverato in ospedale, ferito. Passano i mesi, le sue ferite guariscono. Ora desidera la vita. Non vede l’ora di uscire dall’ospedale, lontano da malati e moribondi. “Io ti dico, alzati e cammina. Nessuna delle tue ossa è rotta.” Fine. Quando ho riletto quelle parole, “Alzati e cammina. Nessuna delle tue ossa è rotta”, ho provato una profonda tristezza. Sai qual è la frase d’apertura della storia? “Quando un uomo entra nel suo trentesimo anno la gente non smetterà di chiamarlo giovane”. Trenta! Ho ricevuto il libro per il mio trentesimo compleanno. Il trentesimo anno di Ingeborg Bachmann. Pertanto sapevo già tutto. Ma che cosa potevo fare? Ho tirato avanti. Eravamo la coppia felice, Elizabeth ed io. Ma in realtà, non amavo mia moglie. E non amavo i miei amici. O anche i miei figli. Ho soltanto pensato a tirare avanti. E ora… Stasera, per la prima volta dico… Le mie ossa sono rotte. Rotte»1.
Secondo chi scrive, è proprio questa la sequenza che racchiude la chiave per penetrare un’opera enigmatica come Sleeping Beauty,
il primo lungometraggio (con suggestioni autobiografiche2) realizzato da Julia Leigh, scrittrice australiana autrice di due romanzi apprezzati dalla critica, Hunter (1999) e Disquiet (2008).
……………
http://specchioscuro.it/sleeping-beauty/
di Lorenzo Baldassari
Venerdì 30 novembre 21.30
The student
Regia di Kirill Serebrennikov. Un film con Pyotr Skvortsov, Aleksandr Gorchilin, Aleksandra Revenko, Viktoriya Isakova, Yuliya Aug. Titolo originale: (M)uchenik. – Russia, 2016, durata 118 minuti.
Sottotitolato in italiano
Fede violenta
Un giovane liceale ha un’unica e assoluta certezza: la Bibbia (mai la chiesa, qualunque essa sia). Leggere la realtà attraverso il sacro libro offre la possibilità di affidarsi a una saggezza ancestrale, comunque non priva di contraddizioni e ambiguità. Una professoressa di biologia è pronta a far valere il suo ruolo didattico e a relativizzare le opinioni del ragazzo, provocando le sue veementi reazioni.
Kirill Serebrennikov, qui al suo quarto lungometraggio, sceglie di trasporre sul grande schermo una pièce teatrale molto discussa in patria russa (l’autore teatrale non ha potuto assistere all’anteprima moscovita del film per motivi politici ma era presente a quella cannense di Un Certain Regard 2016), dall’indubbia potenza espressiva e contenutistica. mediacritica_the_student_290Il regista russo ha avuto l’essenziale complicità di eccellenti interpreti, istintivi e rocamboleschi, capaci di dare corpo a personaggi – il protagonista in particolare – che guardano il mondo attraverso un velo di presunta certezza provata. Petr Skvorstov, soprattutto, propone una performance fisica potente, che trova corrispondenza solo in quella della professoressa, portata sullo schermo da Victoria Isakova, unica altra voce udibile nel coro di mediazioni. Lo scontro tra i due si snoda attraverso conversazioni indirette e trova amplificazione nel coinvolgimento di un terzo personaggio: lo storpio della scuola vessato dai prepotenti. Il triangolo così composto si anima in un processo in cui ognuno è a turno sostituito a Dio, aspirando all’affermazione inconfutabile di una verità assoluta, giustificata dal supporto altrui. I due esponenti delle visioni opposte si nutrono infatti del supporto degli altri (o meglio, soffrono della sua assenza), i quali si pongono in posizione subordinata ad essi, rendendoli divinità profetiche ancora prima che i due lo facciano da soli. I corpi dello studente e dell’insegnante innescano quasi una coreografia di coppia, che forma via via immagini potenti, irriverenti e stranianti, come in un passo a due che preferisce comporre forme con i corpi, anziché con la fotografia. Il botta e risposta diventa ironico, irriverente, provocatorio e persino erotico, mentre la macchina da presa insegue i personaggi per bloccarsi solo in funzione delle loro pose statiche. A commentare l’esplosione verbale e fisica, il regista ha optato per un quanto mai efficace contrappunto musicale, composto da rock e metal veloce e violento, che sorprendentemente si coniuga perfettamente con le intenzioni dogmatiche del protagonista. The Student è un film potente, tra i migliori di Cannes 2016, che offre temi forti e attuali, con immagini capaci di suscitare nel pubblico un’importante confusione sensoriale e contenutistica.
http://www.mediacritica.it/2016/05/19/the-student/
di Teresa Nannucci