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Via San Romano 1 Firenze
POPOLI SOTTO ASSEDIO
Categories: CinemAnemico

 

 

 

 

 

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Un vecchio regista di origine armena gira un kolossal sul
genocidio del suo popolo. Un funzionario della dogana canadese non riesce ad
accettare l’omosessualità del figlio. Due giovani sono alla ricerca della
verità sui padri scomparsi, l’uno ucciso nel tentativo di assassinare un
diplomatico turco l’altro forse suicida. Una madre non sa chiudere i conti con
il proprio passato.     I loro percorsi
si intrecciano nello spazio e nel tempo attorno al nucleo narrativo di
un’interminabile ispezione doganale e di quattro misteriosi contenitori di
pellicola.    Ararat non racconta il
genocidio degli armeni, ne registra l’eco perdurante nel tempo, ne mostra le
tracce lasciate sugli esuli generazione dopo generazione.   Al suo ottavo film Atom
Egoyan
non rinuncia a nessuno dei caratteri stilistici e tematici che
gli sono propri: fluttuazione temporale e frammentazione dello sguardo per
illustrare la crisi dei rapporti umani e della famiglia nell’epoca della
riproducibilità tecnica, per raccontare la ricerca di una verità tanto
irrinunciabile quanto inesorabilmente frustrata.    Presto ci si rende conto di come tutto
questo sia qui riportato alla sua origine, di come il genocidio dimenticato
degli armeni, e la difficoltà di mantenerne il ricordo nel silenzio della
Storia, abbiano segnato la sensibilità artistica di questo autore e dei suoi
partecipi collaboratori.     Ma nel
momento di affrontare faccia a faccia l’orrore, un orrore a lungo segreto e
privo di una sua iconografia, Egoyan sembra sentire con forza solo
l’inadeguatezza dei suoi strumenti d’artista.  
Ararat non è un film riuscito, è un film importante, per molti
motivi, ma vederlo significa assistere alla messa in scena di un
fallimento.    Eppure…        Eppure ciò che colpisce in quest’opera
a tratti ridondante è la profonda, la commovente autocoscienza del suo autore,
l’onestà della sua resa di fronte a ciò che non può esprimere.       Onestà nell’esporre senza compiacimenti la
propria malinconica perplessità sotto il peso della Storia, di fronte al
dolore: quello privato e quello condiviso che si confondono l’uno nell’altro.     Del resto tutto il cinema di Egoyan si
regge sul paradosso di raccontare, attraverso le (belle) immagini, l’impotenza
delle immagini stesse a farsi portatrici di verità.     Il regista sa che non potrà rappresentare
l’irrappresentabile, che non potrà produrre le prove dello sterminio, le
evidenze del dolore, e risolverle in una liberatoria quanto artificiosa
commozione.     Alla fine del film il
pittore Arshile Gorky, esule armeno morto
suicida nel 1948, è di fronte al dipinto che lo ritrae bambino accanto alla
madre, ricordo di una foto scattata pochi giorni prima della strage. L’opera è
compiuta, ma l’ultimo gesto di Gorky cancella le mani materne. In questa
incompiutezza voluta come necessaria sta forse il senso ultimo di un film che
non convince e che non si riesce a dimenticare.

INGRESSO LIBERO  SOCI ARCI

 

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