cdpsettignano
Via San Romano 1 Firenze
SAYAT NOVA
Categories: CinemAnemico

SAYAT  NOVA

(IL COLORE DEL MELOGRANO, 1968)

Georgiano
sottotitolato italiano

Sergei  Paradjanov

Giovedì 3  aprile 
21.15

PROIEZIONE CORTO 21.00                  
                             PROIEZIONE
FILM 21.
15

 

 

 

 

Savat-Nova
è il nome di un trovatore armeno del XVIII secolo. È anche il titolo
del secondo lungometraggio di Serghiej Paradjanov, conosciuto in
Francia e celebre per il suo primo lungometraggio
L’ombra degli avi dimenticati.
L’altro titolo di Sayat-Nova, il titolo russo, se non mi sbaglio, potrebbe essere tradotto con Il colore delle melagrane.
Uno dei primi piani mostra tre melagrane sanguinanti lentamente su una
tela bianca che a poco a poco si imbeve di rosso, il montaggio assicura
subito un legame molto alla Eizenstein con un pugnale che sanguina su
una tela bianca. Per analogia poetica (la melagrana e il sangue) e per
assimilazione storica della sorte riservata al poeta spagnolo e al
cineasta armeno del XX secolo (più che al poeta armeno del XVIII) si
pensa a Garcia Lorca.

Il titolo Il colore delle melagrane più chiaramente che Sayat-Nova,
significa che Serghiej Paradjanov non voleva realizzare una biografia
del trovatore armeno. Non racconta la vita di Sayat Nova, ne utilizza

gli episodi principali, o piuttosto le diverse fasi:
infanzia, adolescenza, servizio del principe, convento, morte, per
comporre, secondo i propositi, una illustrazione che rifugga i limiti
ristretti dell’avventura individuale. Si tratta meno di Sayat-Nova che
di un poeta, anzi dell’artista fra gli uomini.

Ecco la sua infanzia e la scoperta del mondo;
l’adolescenza e il risveglio dei sensi all’amore; il servizio reale e
le sue servitù; il convento e le sue miserie; la morte e la sua
vertigine mistica. Tanti pretesti per delle immagini che rappresentano
non delle scene realistiche, ma delle sublimazioni pittoriche del
reale. Gli avvenimenti svaniscono a vantaggio della meditazione sugli
avvenimenti. Come se attraverso l’illustrazione dei diversi periodi
della vita di Sayat-Nova, Paradjanov ci trascinasse molto al di là,
verso il mondo delle idee pure, una specie di universum platonico, il
cui approccio trova nella poesia e nella sua pratica più che degli
alleati: una voce e una via.

Si abolisce la storia. È la vita di un poeta del
XVIII secolo? La «presenza» del tempo si intuisce solo perché
Sayat-Nova è incarnato da persone di età diversa: un monello, un
adolescente, un adulto nella forza dell’età, un uomo che sta
invecchiando. Questa abolizione della storia è tanto più cosciente in
quanto (dopo le informazioni ottenute) Paradjanov aveva mescolato nel
montaggio perfino il corso della vita. Niente ordine cronologico. Oggi
ristabilito da Youkevitch che ricorse a una divisione del film in
capitoli nettamente staccati, nell’eventualità di uno sfruttamento
commerciale del film. In ogni caso per portare il film nella realtà
storica della biografia. Invano,
Il colore delle melagrane
è un lungo poema in forma di affresco diviso in quadri. In icone più
esattamente. La composizione del soggetto all’interno della scena
disegnata per lo schermo, la divisione dello schermo in pannelli (con
la preferenza per il trittico), l’utilizzazione della superficie per
piani secondo la logica di un’azione drammatica così sconvolta
dall’escamotage o l’attenuazione massimale della profondità del campo
privilegiando le leggi di un equilibrio estetico totalmente staccato
dalla contingenza per meglio obbedire agli imperativi esoterici di un
discorso simbolico.

Esoterici per noi perché si tratta di un simbolismo
in profondo accordo con quello della Chiesa Armena. In quanto, se la
storia è negata (dal punto di vista di Paradjanov e secondo
l’angolatura da cui la considera, Sayat-Nova è nostro contemporaneo),
la geografia non lo è. Il XVIII secolo si dissolve, niente Armenia.
Questa Armenia senza tempo rappresentata dalla sua cultura e
concretizzata dai suoi usi e costumi, dalla sua lingua e dalle sue
chiese. Tutto ciò è presente sullo schermo, compresa la lingua,
visibile sulle steli, in libri, più che dalle citazioni di poesia di
Sayat-Nova.

Il film è praticamente muto. C’è della musica. Una
voce fuori campo molto intermittente; nessun dialogo; dei suoni di voci
utilizzati come musica. Si svolge sotto i nostri occhi un festival di
immagini sontuose, spesso immobili, come costrette dalla scena, e che
si muovono con una lentezza che conferisce solennità ieratica ai gesti
e agli spostamenti dei visi impassibili.

Bellezza strana, malefica, anche se la leggibilità
del simbolo non è sempre di una chiarezza immediata. Sebbene, sul
simbolismo proprio , alla chiesa armena, si innesti un barocchismo di
tipo surrealista molto vicino a quello di Buñuel, Jadorovski o Arrabal
e che ci è più familiare. Ciò che allevia dall’onirismo e dai fantasmi
di Paradjanov (più che da quelli di Sayat-Nova, senza dubbio) o da una
poetica universale come le melagrane, l’angelismo ecc. ci sembra più
facilmente traducibile. E ; ‘ quando dei musicisti armeni suonano
semisepolti in un buco a forma di fossa, e dei bambini armeni gridano:
«Rinascita!», non c’è bisogno di un interprete o di un esegeta per
capire cosa accade.

Il colore delle melagrane
fu girato nel ’70. È l’ultimo film di Paradjanov, in prigione in un
campo di lavoro dal ’73 per ragioni misteriose. Il colore delle
melagrane viene sequestrato, è un «Samizdat» del cinema. Si capisce
come abbia potuto esasperare i burocrati e certo cinema sovietico.
Questo ermetismo «mistico-estetico-cristiano-armeno » ancorato a una
cultura che non ha niente a che vedere con la cultura russa, poco in
comune con la religione ortodossa, assolutamente niente a che fare col
materialismo storico e il marxismo sovietico.

Non so se per il Cremlino sia un motivo sufficiente
perché Paradjanov languisca in un campo di lavoro a cucire sacchi. E
questo solo perché noi non si abbia la possibilità di vedere i suoi
film.

Comments are closed.