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LENINGRAD COWBOYS
Categories: CinemAnemico

Giovedì 14 febbraio  21.15

LENINGRAD COWBOYS

AKI KAURISMAKI

Leningrado: l’attuale San Pietroburgo. Ha mantenuto il nome Leningrado dal 26 gennaio 1924 al 6 settembre 1991.
Cowboy: "nelle praterie nordamericane e canadesi, il guardiano delle mandrie di buoi, cavalli e altri animali. Corrisponde al búttero della nostra Maremma" (Dizionario Gabrielli)

Scritta bianca su sfondo nero: "Somewhere in Tundra…in No Man’s Land".
Lunga
panoramica da sinistra verso destra sul brullo paesaggio della tundra,
che termina su due trattori e una trebbiatrice. In primo piano, un uomo
con i capelli e le scarpe a punta, congelato, è sdraiato a terra. Il
braccio sinistro, irrigidito nel rigor mortis, regge ancora saldamente
un basso elettrico.
È l’incipit di Leningrad Cowboys Go America:
nasce così, sugli schermi cinematografici di mezzo mondo, il mito dei
Leningrad Cowboys. Questa folle band che mescola, in un delirio
sapidamente postmoderno, il rockabilly con i canti dei marinai del
Volga, lega fin dalla sua nascita (avvenuta a ridosso del
cortometraggio Rocky VI nel 1986) il suo nome a quello del regista finlandese.
Autoproclamatisi
"la peggiore rock band del mondo", segnano un punto di passaggio
fondamentale non solo per la carriera di Kaurismäki, ma per le
aspirazioni dell’intero cinema europeo. Leningrad Cowboys Go America
è un film che va all’attacco di Hollywood, ne elabora segni e simboli
per poi rigettarli in blocco; tutto questo con il sorriso sulle labbra,
ghigno derisorio di chi dimostra di saperla veramente lunga. La
Finlandia della fine degli anni ’80, come abbiamo già avuto modo di
rimarcare nel paragrafo Tra New York e Mosca,
versa in una crisi economica figlia di una rincorsa al benessere
deforme e mostruosa. Kaurismäki, che all’argomento ha già dedicato Hamlet Goes Business e Ariel,
prende il problema di petto e ne trasfigura i contorni in questo
viaggio iniziatico: trasporta al di là dell’oceano un gruppo
commercialmente impossibile (il segretario di partito consiglia così
Vladimir/Matti Pellonpää dopo aver assistito a una performance del
combo: "andate in America. Lì amano qualsiasi stronzata"), e lo pone
alla ricerca letterale del successo. Anche gli Stati Uniti che mostra
Kaurismäki hanno ben poco di dorato: è un percorso di un gruppo di
outsider in un paese che relega i reietti sulla corsia d’emergenza.
Ma
al tempo stesso attraverso l’epopea dei Leningrad Cowboys Kaurismäki
scrive la sua ode più pura a quella semplicità di vita che è da sempre
la caratteristica fondamentale dei suoi eroi in camicia e jeans. La
naiveté ostentata di questo gruppo di musicisti scalcinati, senza arte
nè parte, ingenui a tal punto da rasentare la demenza, è l’estremo
riconoscimento del regista ai poveri sognatori che avevano trovato
spazio nelle opere precedenti. L’America dei Leningrad Cowboys è la
stessa faccia della medaglia dell’Eira dei Frank di Calamari Union: vista da lontano appare come la terra dell’oro, ma la realtà mostrerà un panorama ben diverso. Così come Rocky VI
aveva rappresentato l’occasione per Kaurismäki di dare la propria
interpretazione (naturalmente surreale e sui generis) della Guerra
Fredda, Leningrad Cowboys Go America gli permette di gettare
uno sguardo a suo modo antropologico sulla terra del mito occidentale.
E sarà così anche in futuro: i Leningrad Cowboys, nella loro
collaborazione con il cineasta, saranno sempre l’escamotage usato per
leggere la contemporaneità politica in ogni sua sfaccettatura, anche la
più amara e disillusa. Appare fin troppo logico mettere in parallelo
soprattutto i due lungometraggi ed evidenziarne le differenze: è
interessante per esempio notare come l’elemento che muta più
sostanziosamente sia il ritmo. Leningrad Cowboys Go America
ha le movenze e l’umore di un blues, narcotizzante e sornione,
sgraziatamente sprezzante eppure in fin dei conti malinconico,
sconfitto; ha in sè il grasso oleoso di New Orleans, i doppi vetri
opachi del sud, lo squallore metropolitano di una New York livida e
illuminata dalle mille luci al neon. È un canto d’amore, a suo modo,
per un mondo che si è sempre potuto solo immaginare ("mi domando quando
inizierà la violenza. Finisci sempre ammazzato quando vieni a New York"
sintetizza con un misto di delusione e saggezza un componente della
band) e che, probabilmente, è molto meno lontano da noi di quanto si
era pensato/sperato. Leningrad Cowboys Meet Moses, invece,
procede attraverso un accumulo di situazioni sempre più paradossali, in
un vortice slapstick che non ha in sè alcuna dolenza: anche quando
torna a ragionare su New York, nella splendida sequenza a Coney Island,
non fa altro che svilire continuamente il mood che aveva
segnato il primo lungometraggio. L’immagine del musicista vestito da
rivoluzionario messicano che, sguardo perso nel vuoto, è seduto nella
piccola giostra sull’acqua per bambini sintetizza in maniera eccellente
la volontà, da parte di Kaurismäki, di scrivere un capitolo della saga
che si distacchi con decisione dal culto su cui poteva far forza la
band. Dopotutto anche l’America non è più una terra dei sogni, non la
si attraversa più alla ricerca del successo, per il semplice fatto che
si è consapevoli che quel successo non potrà arrivare mai. Il redivivo
Vladimir, che ora si fa chiamare Moses, non a caso sentenzia così ai
suoi compagni d’avventure: "Business is Business, but Moses is Moses".
Leningrad Cowboys Meet Moses
è un viaggio verso la Terra Promessa in rewind, e Moses come il suo
omonimo di biblica memoria deve svolgere il suo ruolo da battistrada.
Se dunque, in questa grottesca rilettura delle sacre scritture,
l’America è l’Egitto che ha sfruttato la band senza comprenderne la
grandezza, l’Europa è la terra di mezzo, quel piano desertico nel quale
si deve vagare in maniera inconcludente nella speranza di raggiungere
la meta. E quindi, mentre Leningrad Cowboys Go America era uno sguardo sul mito americano e la sua attualità, Leningrad Cowboys Meet Moses
ragiona sul declino di un’Europa che al di là delle scelte politiche
appare, alla metà degli anni novanta, un mondo ancora vecchio,
decrepito. Un morto vivente, come il membro della band che alla fine
del primo film si risveglia dal sonno eterno dopo un sorso di liquore,
giusto in tempo per suonare al matrimonio messicano. I Leningrad
Cowboys ne attraversano i confini facendosi beffe di qualsivoglia legge
internazionale, passando dalla Francia alla Germania, dalla Repubblica
Ceca fino alla Grande Madre Russia. La Guerra Fredda è già un lontano
ricordo, Leningrad e Cowboys due parole che non possono
più avere alcun senso nella contemporaneità. La band, come il regista
che la guida per mano, è anacronistica, fuori dal tempo, sconfitta
dalla novità: ma fedele a sè stessa, alla propria morale, alla propria
indole. Un inno alla coerenza e alla perseveranza che in nessun caso
deve essere scambiato per elogio della conservazione e del
passatismo. Per comprendere al meglio questa complessa visione del
mondo è comunque il caso di vedere anche i cortometraggi che Kaurismäki
ha girato con il gruppo musicale: abbiamo già abbondantemente parlato
del valore metaforico di Rocky VI, non stupirà dunque nessuno sapere che il medesimo spirito dissacrante prorompe con forza da Thru the Wire,
crudele satira nei confronti del capitalismo americano condotta in un
bianco e nero surreale, dove noir e grottesco vanno di pari passo. Ma i
lavori brevi più significativi del connubio tra la band e il cineasta
restano con ogni probabilità Those Were the Days e These Boots: nel primo, girato a ridosso delle riprese di Vita da Bohème,
si intravede lo stile più prettamente lirico di Kaurismäki, la sua
propensione alla poesia, il suo desiderio di un’evasione aulica dalla
grigia realtà contemporanea. Those Were the Days, ripresa di
un canto popolare russo nella versione che fu appannaggio di Paul
MacCartney, è l’ennesimo poema di disillusione del regista finlandese,
in un elogio degli umili che ha in sè il nitore ottocentesco di un Hugo
o del Rimbaud più dolente. Qui tutto il mondo segue la moda dei
Leningrad Cowboys, che per la prima volta non rappresentano gli alieni
"malgrado loro" tanto cari a Kaurismäki: il protagonista dunque è
reietto non più in quanto diverso, ma per semplice e crudele condizione
universale. La stessa presa di posizione che prenderà Kaurismäki
quando, di lì a pochi mesi, metterà le mani su Vita da Bohème
che, pur non presentando alcun elemento in grado di ricongiungerlo
all’epopea dei Leningrad Cowboys, mostra in maniera lampante la nuova
urgenza espressiva dell’autore (alle prese, dopo il mito di massa
americano, con quello di nicchia francese). Ben diverso, per quanto
immediatamente successivo da un punto di vista temporale, è l’umore che
domina il cortometraggio These Boots: nuovamente un classico del rock, stavolta These Boots Are Made For Walking di Nancy Sinatra, nell’interpretazione dei Leningrad Cowboys. These Boots
racchiude in pochi minuti la storia della Finlandia dal 1952 al 1969.
Attraverso alcuni dei luoghi comuni più noti sui finlandesi
(l’infantilismo, l’alcolismo, la poca intelligenza), Kaurismäki traccia
un grottesco percorso di lettura della realtà finnica, narrando i
prodromi della crisi e portando alle estreme conseguenze il discorso
sull’inutilità della parola nel suo cinema, che ha fatto da sempre del
silenzio una delle armi più affilate. Tra tutti i cortometraggi di Aki
Kaurismäki con i Leningrad Cowboys (non citiamo qui L.A. Woman, perché non aggiunge nulla, di fatto, alla poetica dell’autore), ci sembra che These Boots
sia quello più denso di significati, nel quale il divertissement che è
alla base di tutte le opere brevi del regista – ma anche della maggior
parte dei lungometraggi – si lega a una riflessione più compiuta sia
sulla realtà che sul cinema come macchina affabulatoria, dedita al "meraviglioso".
Ed è proprio nell’interpretazione del cinema come mondo meraviglioso, estraneo alle pochezze della verità
(i corsivi ci sembrano d’obbligo), che si può interpretare l’happening
musicale che sconvolse la vita di Helsinki il 12 giugno del 1993. In
quella giornata, a suo modo memorabile, sulla piazza del senato ebbe
luogo il concerto dei Leningrad Cowboys con il coro dell’Armata Rossa,
immortalato in Total Balalaika Show. L’URSS non esisteva già
più, ma questa fusione grottesca tra rock e canti popolari, permette a
Kaurismäki e alla band che ha praticamente portato agli onori della
cronaca di aggiungere un ulteriore tassello a quel discorso
sull’anacronismo e sul "tagliarsi fuori" che avevamo affrontato in
precedenza. Davanti agli occhi di un pubblico festante scorrono alcuni
dei più celeberrimi brani rock (il già cinematograficamente collaudato Those Were the Days, Happy Together, Sweet Home Alabama)
e si mescolano ai melanconici e vigorosi canti russi. Il rapporto tra
cinema e rock, forse, non è mai stato a così pochi passi dal sublime.

 
Divertentissimo road-movie musicale e grottesco,
pregno di ironia nord-europea ma ambientato negli States. La storia è quella
dei Leningrad Cowboys, "il peggiore" gruppo folk scandinavo, che va
in America in cerca di successo. Dal momento che, prima di partire, il bassista
rimane congelato per aver trascorso la notte all’aperto a fare le prove, la
band se lo porta in viaggio all’interno di una raffazzonatissima bara di legno
grezzo. Questa è solamente una delle innumerevoli bizzarrie che trovano spazio
in questo delirante film di Kaurismaki, al solito, splendidamente minimalista e
di grande impatto visivo. Non da meno è il look dei musicanti, in un
improbabile stile rockkabilly con enormi ciuffi di 40 centimetri, laccati e
appuntiti in avanti, occhiali da sole neri, pellicce di alce e tremende scarpe
appuntite e lunghe quanto i ciuffi di cui sopra. Per tutta la durata del film
ci si trova ad accompagnare, abbastanza increduli, i dieci membri della band (9
musicisti ed 1 manager) lungo il tragitto da New York al Messico, passando
attraverso quegli scenari periferici e, solitamente ignorati, che dell’America
conosciuta hanno poco, o nulla, ma che di quella vera ne sono lo specchio.
Lungo la strada hanno a che fare anche con Jim Jarmusch, nei panni di un
meccanico, che vende loro un’automobile per proseguire il cammino. Il lungo
viaggio è scandito da tappe regolari, in occasione delle quali i nostri si
cimentano in varie performance musicali nei generi di volta in volta più
confacenti al pubblico presente; è così che la colonna sonora diviene un
efficace pout-purri di folk finlandese, rock, country, blues.. Per il resto non
c’è molto da dire; non ci sono molti dialoghi e quelli che ci sono sono di una
linearità ed una semplicità disarmante. La forza delle immagini e lo scorrere
degli sfondi invece sono il punto di forza di un film che, senza affanni,
lascia ai silenzi ed al naturale assestamento delle cose il compito di
risolvere le questioni e che, più che interpretato, va guardato. Eccezionale la
sequenza in cui il manager Vladimir si occupa di acquistare del cibo per tutti
e si presenta con un sacchetto di cipolle, che i suoi compagni accettano senza
commentare e si spartiscono e consumano, crude, seduti in fila, in silenzio,
lungo il marciapiede, sul retro di un anonimo supermarket. In sostanza si
tratta di un’ispirata riproposizione del logoro soggetto della rock-band che
viaggia coast-to-coast lungo le highway, sviluppato in una sceneggiatura molto
scarna, senza pretese ma con genuina visionarietà. Micidiali i personaggi ed
ottima l’interpretazione di Matti Pellonpaa nella parte di Vladimir il manager.

 

 

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