Venerdì 7 febbraio 21.30
Holy motors
Un film di di Leos Carax. con Denis Lavant, Edith Scob, Eva Mendes, Kylie Minogue, Elise Lhomeau, Michel Piccoli, Jeanne Disson, Leos Carax
Francia 2012 DURATA: 115′
Una limousine bianca si muove per le strade di Parigi: al volante la bionda Céline e seduto sui sedili posteriori Monsieur Oscar. E chi è costui? E’ un industriale, un mendicante, un assassino, un padre di famiglia e persino un mostro, ma non solo. Può essere tutte queste cose, perché la sua vita gli impone di esserlo: la lussuosa automobile su cui si muove è il suo camerino, da cui esce ogni volta con una nuova identità, lavorando dall’alba al tramonto. Ma al di fuori di questa singolare routine, chi è veramente Oscar, quali sono i suoi sentimenti, dov’è la sua casa, cos’è la sua vita? (dal pressbook)
“Holy Motors” è nato dalla mia impotenza a montare diversi progetti, tutti in lingua straniera e all’estero. Incappavo sempre nei due medesimi ostacoli: casting e soldi. Non potendone più di non girare, mi sono ispirato all’esperienza di “Merda”; che era un film su commissione giapponese. Mi sono passato da solo la commissione di un progetto fatto nelle stesse condizioni, ma in Francia: immaginare in fretta, per un attore già scelto, un film non troppo caro. Tutto ciò é stato reso possibile dall’uso di videocamere digitali, che io disprezzo (perché esse si impongono o ce le impongono), ma che rassicurano tutti.
Venerdì 14 febbraio 21.30
GA, GA – CHWALA BOHATEROM
Un film di Piotr Szulkin 1986 –
Polonia, Studio Filmowe Perspektywa, col., 84 min.
Nel 21° secolo, il diffuso benessere e l’appiattimento dei modelli di vita hanno spento negli uomini la sete dell’avventura, il piacere del rischio, la tensione verso il gesto eroico e glorioso. Nessuno vuole più intraprendere il mestiere dell’astronauta ed i programmi per la conquista dello spazio minacciano di coprirsi di polvere negli archivi statali. Per rimediare a questa imbarazzante situazione il governo polacco decide di servirsi dei prigionieri che sovraffollano le patrie galere, invogliandoli a partecipare ai voli nella stratosfera in cambio della grazia. Una navetta parte finalmente verso lo spazio infinito, alla ricerca di un nuovo mondo da colonizzare ed atterra, contro ogni previsione, su un pianeta che, pur non essendo mai illuminato dal Sole, è simile alla Terra, tecnologicamente progredito ed abitato da un popolo che parla correntemente la lingua polacca. Il capo dei cosmonauti viene accolto ed acclamato come un eroe da un viscido personaggio ben vestito che gli offre subito una prostituta minorenne….. Il pianeta immaginario nel quale si compie il destino dello sfortunato protagonista è la proiezione di un modello sociale anni ’80 fortemente disgregato, nel quale convivono le miserie del comunismo e le stridenti contraddizioni del capitalismo. La città che ospita l’eroe venuto dalla Terra è popolata da poveri emarginati, ricchi burocrati corrotti e giornalisti cinici in perenne ricerca dello scoop sensazionale. Un mondo manipolato da un potere impersonale che mutua dal nostro gli aspetti più negativi e che costruisce il consenso attraverso la televisione di stato, implacabile occhio onnipresente che registra gli avvenimenti più cruenti per soddisfare l’inestinguibile morbosità del pubblico.
(fonte della scheda: http://www.fantafilm.net)
Venerdì 21 febbraio 21.30
Devyat Sem Sem
(977)
Un film Nikolay Khomeriki
Russia, 2006 87 min.
Il mondo, quello che si crede di conoscere, che si percorre ogni giorno, è lasciato fuori campo. In 977 opera prima del russo di Mosca Nikolay Khomeriki, un uomo, uno scienziato, lo osserva sfocato (in un film dove ancora una volta l’inizio e la fine si incontrano uguali e diverse) a bordo di un non meglio identificato mezzo di trasporto che lo conduce in uno spazio segreto, al di là di una frontiera invisibile: un edificio-laboratorio in cui altri scienziati e un gruppo di volontari che si sono proposti come cavie conducono esperimenti nel tentativo di verificare l’armonia interiore attraverso l’algebra. E il numero che dà il titolo al film è il codice cifrato legato a quella ricerca, che si ispira alle regole della matematica alfine di spiegare, se mai ciò è possibile, la sfera emozionale e spirituale dell’essere umano. 977 è un film di realismo fantastico nel senso, migliore, di molto cinema pensato, prodotto e realizzato in quella che era l’Europa dell’Est. Dunque, un film dove ogni immagine condensa un immaginario filmico e politico immediatamente riconoscibile e abbastanza raro da ritrovare nelle attuali cinematografie ex est europee. Un film che fa pensare, senza pedanterie, a Tarkovski, a quel Tarkovski che ci invita a un viaggio in un mondo solo apparentemente parallelo, lontano e misterioso (si pensi a Stalker o Solaris). Khomeriki rende quel laboratorio un set in trasformazione, filmato in soggettiva o comunque con occhio complice e in movimento, che entra nelle stanze dove si tengono gli esperimenti e negli spazi più intimi di un ambiente dove la linea tra vita privata e lavorativa si frantuma. Un ampio salone può essere luogo di riposo per gli uomini e le donne lì ricoverati oppure spazio per una conferenza al termine della quale sarà svuotato dei suoi elementi. Così come la stanza più segreta, quella monitorata da una piccola videocamera-occhio in perpetuo movimento circolare, sarà osservata e penetrata in immagini che restituiscono, al pari delle luci e dei corpi, il senso di una realtà mutante nella quale convivono scienza e emozione. E i loro più imperscrutabili segni. L’anima di un numero e il numero, la temperatura sempre diversa, di un’interiorità.
Tratto da www.sentieriselvaggi.it
Venerdì 28 febbraio 21.30
POST TENEBRAS LUX
Un film di di Carlos Reygadas
durata 115′ min. – Messico/Francia/Olanda/Germania 2012
Terminata la proiezione di Post Tenebras Lux (2012), con i sensi ancora assaltati dalle sue immagini, l’impressione immediata è stata quella di trovarsi al cospetto di un’opera che tratta il Male come forse non era mai stato fatto in ambito cinematografico; l’afrore di zolfo, trasposizione puntuale di ben note entità, slitta però sullo sfondo, tanto che il diavolo, qui nelle vesti molto kitsch di un demone rosso fluorescente, non c’entra nemmeno poi tanto, il vero afflato luciferino che Carlos Reygadas immette nel film è un qualcosa che va straordinariamente oltre la patina della visione per incunearsi nei territori della sensazione, avamposti di un cinema che affabula per mezzo di quanto vede e che ripropone con un realismo che sa oscillare con spiazzante disinvoltura tra sogno e realtà; d’altronde in merito a percezioni, onirismo e quant’altro basterebbe prendere il prologo per farsi un’idea di cosa si ha davanti: dieci abbacinanti minuti che ti si appiccicano agli occhi e che penetrano in profondità, giù per quelle corde dell’inquietudine agguantate da una bambina che invocando il nome dei propri famigliari sotto un cielo venato dai fulmini rimanda adaltro di infinitamente più grande, uno smarrimento universale che in fondo riguarda tutti coloro che calpestano il suolo di questo pianeta. Il Male sopraccitato si sedimenta in questi rimandi, epifanie di un dolore Umano che emergono dallo spartito di un geniale concertista: il raptus di Juan nei confronti del cagnetto, le confessioni del gruppo di alcolisti anonimi, la visita dei coniugi nello swinger club francese, il tradimento del Siete e l’ammutolente conclusione che lo vede protagonista (la decapitazione: il Male è nella testa?), tutti segnali pulsanti, allarmi urgenti dentro un contesto naturalistico e non che Reygadas immortala come sa fare soltanto chi ha un talento smisurato come il suo e che sullo schermo in 4:3 scorrono e si calcificano lontani dall’artificio.
Potrà anche essere tacciato di incomprensibilità Post Tenebras Lux, si potrà additare quel zigzagare temporale che lo costituisce, le sue falle logiche o i grandi interrogativi orfani di risposte (ad esempio: Juan vivrà o no?), ma il premio per la miglior regia a Cannes ’12 è un Cinema Nuovo che a fronte di possibili mancanze squaderna una ricchezza espositiva e argomentativa che lo rende un giacimento preziosissimo, un pozzo vergine dal quale attingere a piene mani per restare meravigliati da ogni singolo approccio utilizzato dal regista: si parte dai problemi matrimoniali (retaggio, forse, di Silent Light, 2007) che seppur ordinari si ammantano di una sofferenza sottaciuta ma avvertibile per allargare il raggio d’interesse su tematiche che già sostanziavano il capolavoro precedente (Japón, 2002) e che, quindi, abbracciano l’escatologia, la fine e l’inizio di tutto. A guarnire la portata semantica l’autore messicano erige una sintassi estetica che oserei definire seminale, aldilà della costante sfocatura ovale che sborda i contorni delle riprese (principalmente quelle esterne) e che conferisce una percentuale di straniamento molto elevata, la capacità di Reygadas nello scovare continuamente soluzioni innovative stupisce ed incanta e raggiunge picchi di purezza che ancora non avevamo visto, sequenze che per quanto mi riguarda possono già passare alla Storia del Cinema come quella sulla spiaggia, teatro, peraltro, di un possibile cortocircuito anagrafico da far girare la testa, la cui incisione ottica, alimentata da un sonoro che letteralmente inonda l’apparato uditivo, consegue un livello di intensità tale da produrre con niente (due bambini che zampettano sulla sabbia) quello che chiediamo imploranti all’arte: l’emozione.
Post Tenebras Lux è, oggi, un appuntamento da non perdere perché il film di Reygadas è un film da studiare fotogramma per fotogramma, mai conciliante e sempre intraprendente, un’opera del genere meriterebbe approfondimenti ben più corposi di quanto scritto in questa sede, trattato di come può e deve essere ancora il cinema contemporaneo: materia inesauribile su cui tornare e ritornare infinite volte come se ogni nuova visione fosse la prima. In un mondo come il nostro che, senza retorica, ha iniziato da tempo a scivolare in un buio denso e paludoso, la luce può arrivare da una torcia che arde tenace, da uno sconosciuto quarantaduenne nato a Città del Messico che col suo cinema anti-letterale dona Verità (sull’essere, sull’amore, sul sesso, sul dolore, ecc.) ad uno spettatore ignaro e sempre inadeguato a ricevere tali vastità.
PUBBLICATO DA ERASERHEAD
Venerdì 7 marzo 21.30
Songs From the Second Floor
Regia, sceneggiatura: Roy Andersson
Cast: Lars Nordh, Stefan Larsson, Bengt C.W. Carlsson, Sten Andersson, Rolando Núñez
Fotografia: István Borbás, Jesper Klevenas, Robert Komarek
Svezia 2000, 95 minuti.
Strani eventi in una città: macchine imbottigliate in un traffico infernale, un imprenditore che dà fuoco alla sua ditta, funzionari pallidi come cenci, case che si muovono, fantasmi che tornano alla vita, e una bambina sacrificata per il bene della popolazione.
Curiosissima visione, opera per certi tratti apocalittica firmata dallo svedese Roy Andersson che suggerisce attraverso la sua declinazione sarcastica della realtà un percettibile stato di malsana inquietudine. Questo Andersson, per cui penso valga la pena recuperare altri suoi lavori, adotta un metodo registico rigoroso: zero movimenti di macchina, assenza totale di campi e controcampi, uso ridotto ai minimi termini del sonoro. La forma del film si sostanzia così in tanti quadri sequenziali dove la mdp è letteralmente immobile e gli attori si muovono (di)sgraziatamente sulla scena che si espande in profondità fin dove l’obiettivo riesce ad arrivare.
Lo dico: la pellicola è lenta, frammentata. Inevitabilmente poco coinvolgente. Di fatto, però, le riflessioni da essa scaturite mi hanno “preso”, e reso così consapevole di aver visto un film perlomeno intelligente.
L’acuminata ricerca del regista mette a nudo il potere tout court. Da qui si mostra l’impotenza dell’uomo davanti ad eventi fuori dal suo controllo. Nessuno sa perché si sia formata quella coda chilometrica di automobili, come nessuno sa il motivo per cui non ci sia più lavoro. E mentre un pazzo dentro ad un manicomio riflette sul fatto che Gesù sia stato crocifisso perché era buono e gentile, un venditore cerca di rendere la religione un business vendendo croci. Gli uomini del film sono allo sbando, non capiscono il mondo intorno a loro e non riescono a capire sé stessi. Il potere burocratico spera di trovare la soluzione dentro una palla di cristallo, l’etica religiosa (con qualunque significato personale attribuibile) è smarrita. Si profila perciò una paura ancestrale per cui la benevolenza di un qualche dio dovrebbe accettare il sacrificio di una bambina in cambio di rimettere le cose a posto. Magistrale la sequenza in cui un vecchio e pallido bacucco pieno di onorificenze si chiede cosa avrebbero dovuto fare di più per migliorare la situazione, mentre affianco a lui una giovane ragazza non riesce a salire sullo sgabello. L’umanità è in ginocchio.
E poi i fantasmi, di un vecchio debitore, di un ragazzino impiccato che perseguitano il povero Kalle il quale non riesce (non può!) darsi pace per il figlio diventato pazzo perché poeta. Anche l’ultimo briciolo dihumanitas è svanito, il mondo si appresta alla fine. Impotente.
La scena conclusiva è folgorante, mi ha lasciato di stucco, cosa che ormai accade sempre più di rado.
Ma è un film ostico, lo ripeto, decisamente non per tutti. Fate un tentativo.
Venerdì 14 marzo 21.30
Něco z Alenky
(QUALCOSA DI ALICE)
Un film di Jan Svankmajer. Con Kristyna Kohoutová Titolo originale Neco z Alenky. Animazione, durata 84′ min. – Cecoslovacchia, Gran Bretagna, Germania, Svizzera 1987
Nel 1987 l’artista praghese Jan Švankmajer realizzò il suo primo lungometraggio “QUALCOSA DI ALICE” (Něco z Alenky ). Si trattava di una sua personalissima trasposizione dell’Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. Una rilettura visionaria, macabra, fatta di ossa e vecchi giocattoli, ambientata in una fatiscente cantina, formata da una successione di stanze abbandonate.
La storia è fedele a quella che noi tutti conosciamo: Alice, stufa di stare insieme alla sorella, insegue un coniglio e finisce sottoterra, nella sua tana, ingresso di un mondo fantastico popolato di strambe creature. Ma l’interpretazione e la messinscena di Švankmajer è unica ed originale. Il coniglio è un vecchio coniglio impagliato che perde la segatura della sua imbottitura e che si rammenda da solo con una spilla da balia, il bruco è un vecchio calzino con la dentiera, e tutti gli animali sono sinistre creature assemblate con crani, stracci e vecchi oggetti, simili per molti aspetti alle strabilianti opere di Jean Tinguely. Alice invece è una bambina in carne ed ossa, incredibilmente espressiva e dallo sguardo spietato di quella fanciullezza che a breve inizierà la metamorfosi verso l’età adulta.
Le battute sono pochissime, ridotte all’essenziale, la musica è completamente assente e la colonna sonora è costituita da rumori e suoni reali, perché, come sostiene l’autore, in questo modo si acquista un maggiore senso di realtà e ci si allontana dall’idea di fiaba. Švankmajer sostiene di aver voluto fare un film sul sogno e di ave utilizzato gli scritti di Carroll come mezzo per porre un nuovo accento sul concetto di sogno che l’attuale civiltà ha gettato negli immondezzai della psiche.
Sono lontane le sdolcinature canterine per famiglie della versione Disney e anche le goticizzazioni fuori luogo e astruse che verranno tanti anni dopo dalle versione di Tim Burton, così come tutte le altre trasposizioni cinematografiche, che cercando di rimanere fedeli all’originale letterario lo tradiscono in partenza. Forse si potrebbe fare un parallelo tra il film di Švankmajer e la versione illustrata da Dusan Kallay del 2004, perché si tratta di due artisti nati e cresciuti entrambi in terra Boema e appartenenti alle ultime propaggini del movimento surrealista. E’ proprio di surrealismo si avverte l’anima in questo film; non bisogna dimenticare che “Alice nel Paese delle Meraviglie” era il libro per eccellenza di molti esponenti di tale avanguardia, che lo consideravano carburante per la mente. Come sosteneva Viginia Woolf, “i due libri di Alice non sono libri per bambini, ma gli unici libri in cui noi diventiamo bambini”.
Švankmajer dice che non gli piacciono i film disegnati, così la tecnica utilizzata nel film è quella dell’animazione stop-motion, mescolata con molte parti in live-action per quanto riguarda il personaggio di Alice. Ma non si tratta di un’animazione perfetta, bensì di un qualcosa di artigianale, scattoso, polveroso, rugginoso, e proprio per la sua istintiva imperfezione plausibile ed incredibilmente reale. Si respira a pieni polmoni lo spettro dell’animazione dei paesi dell’est, quella di Władysław Starewicz e di Jiří Trnka per intenderci, che tanto influenzerà i geni di questa tecnica, i fratelli Quay, che nella loro formazione andranno per un periodo a studiare nella bottega di Jan Švankmajer e al quale dedicheranno poi con riconoscenza un cortometraggio.
Le riprese sono durate circa un anno e ad un occhio attento è possibile intravedere la piccola metamorfosi della bambina che interpretava Alice, che all’inizio aveva sette anni e alla fine otto. E siccome le scene non sono state girate in progressione, Švankmajer si diverte a pensare che con il passaggio di una porta la bambina invecchi improvvisamente di qualche mese, per poi ringiovanire magicamente al passaggio successivo. Tutti gli oggetti presenti nella pellicola sono stati raccolti dallo stesso Švankmajer, appassionato di collezionismo, accumulatore di oggetti e instancabile curatore della sua personale wunderkammer, che si accresce a dismisura pellicola dopo pellicola, grazie anche al lavoro di sua moglie Eva, scenografa di tutti i suoi film, purtroppo scomparsa nel 2005.
Švankmajer è nato a Praga il 4 settembre del 1934, dove tuttora vive e lavora. E’ autore, oltre a molti cortometraggi, di numerosi lungometraggi oltre a “Qualcosa di Alice”, tra i quali “Lezione Faust” del 1994, “I Cospiratori del Piacere” del 1996 e “Otesànek” del 2000. Se siete di passaggio a Praga potete provare a passare alla galleria Gambra, nei pressi del Castello, dove sono esposte alcune sue opere assieme a quelle dei maggiori esponenti del movimento surrealista ceco. La scrittrice Angela Carter ha dedicato un suo racconto al suo mondo e al suo laboratorio di animazioni, paragonandolo al gabinetto di un alchimista.
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